by Annalena Benini
Non avevo mai visto la brughiera quando ho letto per la prima volta Cime tempestose, ma è il paesaggio più vivido e attraversato dal vento che io abbia mai incontrato: la natura più nuda, selvatica, minacciosa che abbia formato la mia immaginazione. Ho conosciuto ogni radice di erica e ho sentito sbattere forte le finestre sferzate dalla pioggia e dalla voce di Catherine Earnshaw che cerca Heathcliff, e cercando lui cerca sé stessa. Nella neve o nell’erba che cresce tra le pietre, con gli abeti piegati dalla bufera. Talmente più di un paesaggio e così parlante: come un’anima in pena, come un cuore selvaggio.
Come la vita e come l’essenza di Emily Brontë, quinta figlia di un reverendo irlandese autodidatta e di Maria Branwell, che morì quando Emily aveva solo tre anni. Emily Brontë è cresciuta senza una madre, e così anche i personaggi di Cime tempestose. È cresciuta in quella brughiera piena di voci e di uccelli selvatici e ha sofferto, disubbidendo al suo destino di istitutrice, ogni volta che se ne è allontanata. Emily Brontë è cresciuta nella prigione di una canonica e di un secolo in cui le donne dovevano ancora aspirare soltanto all’anonimato: infatti ha pubblicato Cime tempestose, un anno prima di morire di tubercolosi, con lo pseudonimo di Ellis Bell. Un nome da maschio, una vita di donna che ha costruito la sua libertà dentro l’immaginazione, insieme alle sorelle e attorno al fuoco sempre acceso della cucina: era la sua stanza preferita, anzi il suo posto preferito al mondo e anche il fulcro drammatico di questo grande romanzo che avete adesso tra le mani dopo centosettantasette anni dalla sua prima pubblicazione (hanno detto, allora: violento, hanno detto: brutale. Hanno detto: selvatico. Voi che cosa ne pensate? La prima volta che l’ho letto, a quindici anni, ho avuto la sensazione di entrare in un altro mondo e ho provato una gran paura, la paura che chiede ancora paura, ancora pagine, e che ha reso Heathcliff, Catherine e quella natura parlante, personaggi indimenticabili).
Virginia Woolf ha riconosciuto a Charlotte ed Emily Brontë una grandezza che è andata oltre le poche possibilità del destino femminile: donne senza alcuna esperienza di vita, donne senza libertà di movimento, donne così povere che potevano permettersi di comprare poche risme di carta, donne a cui il padre diceva: non ho tempo di leggere il tuo manoscritto, esci dalla stanza e lasciami lavorare. Donne continuamente sottoposte al giudizio morale di uomini e donne. Donne, ragazze, che hanno seguito la propria strada e che hanno aperto la strada alle altre.
«Quando, di fatto, leggo di una strega annegata, di una donna posseduta dai demoni, di una donna saggia che dispensa le erbe, o di un uomo notevole che ha avuto una madre, allora penso che siamo sulle tracce di una romanziera perduta, di una poetessa costretta al silenzio, di qualche muta e oscura Jane Austen, di qualche Emily Brontë che si sarà fracassata il cervello nelle brughiere e avrà vagato folle lungo le strade con il tormento inflittole dal suo talento», scrive Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé nei primi decenni del Novecento, ringraziando Emily e anche le donne prima di lei. È stata, Emily, l’erede di altre donne che hanno avuto il dono della poesia e anche l’audacia di scrivere in secoli in cui negli scaffali non esistevano libri che portassero la firma di donne, ed è stata la capostipite di tutte le altre, le scrittrici e le artiste, le lettrici, le insegnanti che hanno tenuto in mano Cime tempestose in una cucina con il fuoco acceso e dentro un cammino comune, il più accidentato che sia mai esistito. Cammino dentro l’erba alta della brughiera, con il vento contro. Cammino contro tutte le circostanze della vita che gridavano: non scrivere, non perdere tempo, che cosa ti sei messa in testa?
La massima gloria per una donna è che non si parli di lei, diceva Pericle, dicevano più o meno tutti gli uomini molto famosi. Perfino Emily Dickinson, la più grande di tutti, scriveva: «Io sono nessuno» e la sua prima raccolta di poesie è stata pubblicata postuma. Postuma: dopo che il cuore ha smesso di battere e le mani di scrivere versi e di creare storie.
Il magnifico riscatto della storia delle donne allora è questo: dopo quasi due secoli siamo qui, a parlare della modernità di Cime tempestose, ad ammirare Emily Brontë e le sue sorelle, a considerare questo romanzo un grande classico della letteratura mondiale e a trovarci ogni volta qualcosa di nuovo. Un romanzo che si muove insieme a noi che ci muoviamo, cresciamo, e abbiamo ancora bisogno del vento che arriva dalla brughiera: ci è più chiara adesso la forza di quel talento, del desiderio e della dedizione. Entriamo dentro le giornate delle sorelle Brontë e nei loro tormenti, dentro i segreti sussurrati, nei fogli scritti in ogni angolo e immaginiamo le notti passate nei letti una accanto all’altra, le camicie da notte bianche, a raccontarsi storie, a ragionare sui personaggi e sull’assoluto. Sono state anche notti di grande felicità, euforia, sono state notti di immensa libertà e di comunione le une con le altre. Parlavano del contrasto tra il bene e il male. Si raccontavano leggende inquietanti, storie gotiche, storie selvagge, e forse fantasticavano della ribellione di Catherine, dell’amore che va oltre la morte, del richiamo della natura che la lega indissolubilmente a Heathcliff, allo stesso modo in cui Emily Brontë è legata, violentemente, alla brughiera e alla scrittura.
È bello rileggere ancora una volta la sublime dichiarazione di Catherine: «Che senso avrebbe essere nata, se io mi esaurissi tutta in me stessa? I miei grandi dolori in questo mondo sono stati i dolori di Heathcliff, e li ho osservati e patiti tutti quanti fin dal principio; il mio più grande pensiero nella vita è lui. Se tutti quanti morissero, e non restasse che lui, io continuerei a esistere; e se tutti gli altri restassero in vita, e lui venisse annientato, l’universo mi diventerebbe completamente estraneo: non me ne sentirei più parte. Il mio amore per Linton è come il fogliame nei boschi: il tempo lo cambierà, lo so bene, come l’inverno cambia gli alberi. Il mio amore per Heathcliff somiglia alle rocce eterne sottoterra: ne viene poco piacere visibile, ma è necessario. Nelly, io sono Heathcliff! Lui è sempre, sempre nei miei pensieri: non è un piacere, come io non sono sempre un piacere per me stessa, ma è il mio stesso essere. Perciò non parlarmi più di separazione: non è possibile ». Nelly, ormai lo sapete, è la governante che di tutti ha pietà, la madre che non hanno avuto, la donna che ascolta, osserva, assiste alla grandezza, alla crudeltà e all’infelicità: è come noi lettori, che vorremmo dare buoni consigli a Catherine, vorremmo fare una carezza a Heathcliff e calmarlo. Li desideriamo felici, sorridenti, placati e vivi per sempre. Ma questa è la strada della tempesta, che Emily Brontë, una ragazza di brughiera, una ragazza che vuole respirare il vento, ha scelto, immaginato e scritto per sé e per le sue sorelle. È la strada che ha trasmesso al mondo, da sola, ma dentro il cammino comune delle donne che prima di lei non erano nessuno.
"One Book Many Schools" is the shared reading project involving the publication of Wuthering Heights in 7,000 copies for students. Promoted by the Turin Book Fair and Intesa Sanpaolo, with the support of the Council of Banking Foundations of Piedmont and Liguria and the participation of Chora Media and Mondadori. To join, schools must apply on the https://saltopiu.salonelibro. it/ platform by Jan. 26. Info: www.salonelibro.it.
la Repubblica, January 15th, 2024